Offese a mezzo social: diffamazione o ingiuria?
- Avv. Giorgio Marchetti
- 12 apr 2020
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 25 apr 2020

Vi parlerò oggi di una questione piuttosto sentita dagli utilizzatori dei social: quella dei commenti non propriamente ortodossi talvolta rivolti da parte di alcuni iscritti ad altri partecipanti. Qual è il rimedio, sotto il profilo giuridico, se partecipando ad una discussione su Facebook piuttosto che su altri consessi telematici si ricevono degli insulti Innanzitutto è necessario individuare che cosa si si intenda con il termine «insulto».
Per giurisprudenza pressoché uniforme si configura una condotta illecita in tal senso quando ci si rivolge ad un'altra persona esulando dal diritto di critica e trasmodando nell'invettiva personale con l'intenzione di ledere la reputazione ed il decoro del destinatario delle contumelie. Così si è espresso il Tribunale di Roma (Sentenza 9 agosto 2019, n. 16263) in relazione all'utilizzo del termine «insulto» scritto in un commento ad un post su Facebook.
Tuttavia taluni epiteti possono essere giudicati diversamente qualora contestualizzati nell'ambito di una critica.
Ad esempio dare del «buffone» a un esponente politico nel contesto di una critica, perde la sua carica lesiva e va comunque inserito nell'ambito della critica politica, che si esprime con toni anche aspri e sgradevoli. Lo ha stabilito la Cassazione (sentenza n. 19509 del 7 giugno 2006), che si è pronunciata sull'epiteto lanciato nel 2003 da un giornalista contro Silvio Berlusconi.
Il diritto di critica, infatti, si concretizza nell’espressione di un giudizio o di un'opinione che, come tale, non può essere rigorosamente obiettiva. In tale ambito, affinché l'espressione sia ritenuta legittima deve soddisfare i requisiti di rilevanza sociale dell'argomento e dalla correttezza di espressione (Cass. Sez. V, 01/10/2001; Cass. Sez. V, 24.11.1993, n. 11211).
Inoltre deve essere rispettato il criterio di veridicità anche se quest'ultimo requisito è suscettibile di attenuazione. La critica deve pur sempre riferirsi ad un determinato evento, che può essere culturale, artistico, religioso, sociopolitico, letterario od altro, che per sua stessa natura consiste nella rappresentazione valutativa di quello stesso fatto elaborata da chi muove la critica, il giudizio che per definizione la sostanzia è ineludibile espressione del retroterra culturale e formativo di chi lo formula (Cass. penale, sez. V, 16.11.2004, n. 6416).
Pertanto, quando apostrofare qualcuno con un'espressione sconveniente esula dal diritto di critica, si ricade nell'ipotesi della diffamazione o in quella più lieve dell'ingiuria, entrambe non prive di possibili conseguenze, soprattutto risarcitorie del danno cagionato alla reputazione del destinatario.
L'ingiuria, originariamente prevista dall'art. 594 del codice penale, norma abrogata dal D.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, è il fatto illecito di chiunque mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa, offende l'onore o il decoro di una persona presente.
La diffamazione, invece prevista dal successivo articolo 595 del codice penale, parimenti punisce l'offesa all'altrui reputazione ma fuori dai casi previsti dalla norma precedente (quindi quando l'interessato è "assente", non solo fisicamente ma anche quando sebbene presente non è in grado di percepire l'offesa) comunicando con più persone. Ed invero, si deve presumere la sussistenza del requisito della comunicazione con più persone qualora il messaggio diffamatorio sia inserito in un sito internet per sua natura destinato ad essere normalmente visitato in tempi assai ravvicinati da un numero indeterminato di soggetti (Cass. Pen., n. 16262/2008 e Cass. Pen., n. 4741/2000). Il requisito della comunicazione tra più persone si considera integrato anche qualora questa avvenga in tempi diversi (si pensi al "passaparola")
La diffamazione prevede alcune ipotesi aggravate, Per quanto è qui d'interesse, la condotta diffamatoria perpetrata attraverso il mezzo dei social networks accessibili su internet configura l’ipotesi aggravata del reato di diffamazione di cui al terzo comma dell’art. 595 c.p. e ciò poiché l’azione diffamatoria condotta con tale mezzo è destinata a raggiungere potenzialmente un numero plurimo di soggetti ed, in potenza, indeterminato, con ciò cagionando un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa (tra le altre, Cass. pen. sez. I, 08/06/2015 n. 24431).
In aggiunta, prosegue la Suprema Corte, tale ipotesi di reato è qualificabile come delitto di diffamazione aggravato dall'avere arrecato l'offesa con un mezzo di pubblicità (fattispecie considerata al comma terzo dell'art. 595 c.p. e equiparata, sotto il profilo sanzionatorio, alla diffamazione commessa con il mezzo della stampa) poiché a tale proposito giova ricordare che, per volontà del legislatore, la diffamazione su "internet rientra nella previsione del comma 3 dell'art. 595 c.p. atteso che un sito web, un blog, un forum, un social network e quindi anche Facebook, sono considerati "mezzi di pubblicità", in quanto consentono la diffusione di testi, immagini e video a una moltitudine di soggetti.
L'ipotesi aggravata di cui si è detto del reato di diffamazione prevede la condanna alla pena della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.
Entrambe le fattispecie dell'ingiuria e della diffamazione sono suscettibili di tutela risarcitoria in favore dell'interessato per il ristoro del danno patito, che sarà stabilito dal giudice civile per ciascun caso concreto. Tuttavia mentre per la diffamazione aggravata è sufficiente proporre querela all'autorità giudiziaria che procederà penalmente nei confronti del reo e, una volta ottenuta la condanna in sede penale, adire al giudice civile per la quantificazione del danno, nel caso dell'ingiuria sarà necessario intentare una vera e propria causa civile con l'onere per l'interessato di provare il fatto, il danno ed il suo ammontare ed il nesso di causalità diretto ed immediato tra il danno ed il fatto (art. 2043 cod. civ.). La prova del danno nel caso della dell’ingiuria è tutt’altro che scontata, anche se si sarebbe portati a pensare il contrario.
Infatti, la giurisprudenza di legittimità ha di recente affermato che «il danno all'onore ed alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è “in re ipsa”, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell'interesse tutelato dall'ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, sicché la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, precisandosi, tuttavia, che assumono “a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento”, tra gli altri, “la rilevanza dell'offesa e la posizione sociale della vittima” (Cass. Sez. 3, ord. 26 ottobre 2017, n. 25420, Rv. 646634-04) e ciò, oltretutto, “tenuto conto del suo inserimento in un determinato contesto sociale e professionale” (Cass. Sez. 3, sent. 25 maggio 2017, ord. 13153, Rv. 644406-02).
Al riguardo dell'ammontare del danno, poiché potrebbe essere di difficile determinazione, si potrà chiedere al giudice di valutarlo in via equitativa (art. 1226 cod. civ.).
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